martedì 2 ottobre 2012

Senza ritorno


Le tre di notte sembrano un luogo. Guardo gli altri in cucina e sembra che fino a un minuto prima abbiamo giocato a farci i gavettoni. Mi annuso e immagino schizzi di piscio sporcare forno, frigo e per terra.
Sigaretta? – Si, ma poi bomba ninja e veloce a casa. – Ok, ma prima la spariamo una bombetta? – Aspe’ ché controllo prima se in sala ci sono clienti.
Intanto mi rullo una sigaretta, l’accendo e vado a prendere dal Bicchiere dei Poverelli una cartina lunga e un pezzo di cartoncino strappato da una confezione di stecchini Mikado. Una nuvola di fumo cambia i colori del samurai disegnato male.

Niente, ci sono dei tipi al banco! Vabbè, facciamola qui. – Sta tutto sul freezer, vado a prendermi qualcosa da bere. Tu vuoi niente?

Niente. Nelle sue voglie, nella mia testa e nei mitocondri di tutti. Arrivo al banco che avrei già dovuto notare A che continua a bere. Sorrido per rendermi ancora più credibile, si sparano insulti gratuiti alle rispettive madri, le solite cose che si dicono quando non ci si vede da un po’. Lo esamino mentre faccio le seghe alla bottiglia di succo di frutta e ne sbatto il fondo sul palmo dell’altra mano. (fap fap fap) Mi tolgo la sigaretta dalla bocca e: “E. l’hai già accompagnata a casa? Che poi oggi non è il vostro…?”

Paio di frasi e so di nuovo tutto. Conoscere è un continuo inseguire per non restare indietro, soli, emarginati. Sempre pensato che le signore sul balcone sono avanti, ma adesso lo penso di più.

E quindi? – E quindi un cazzo. Mi piango i soldi dell’aereo e quelli dell’albergo. – E lei. – E lei, sì. Sei un amico, veramente…

Lo invito dietro, nel deposito. Nessun problema da parte del capo che ha la faccia di chi vorrebbe solo vomitare sui piedi degli ultimi clienti per cacciarli e andare via.

Al terzo tiro gli chiedo a che ora è la partenza. Sommo mentalmente il tempo per fare una doccia, ritrovare la valigia, metterci dentro della roba presa dai soliti cassetti, il caricabatteria, il telefono, il portafogli e un pacchetto di fazzoletti. Avanza un’ora. Finiamo di fumare tranquillamente e bomboninjamo. Alle sei e qualcosa siamo in aeroporto. A. è nel bagno che finge di non vomitare o piangere o entrambe le cose. Io porto gli occhiali scuri sugli occhiali normali e i neon intorno illuminano le sedie occupate da due bionde. Ne approfitto per andare su Twitter. La stalkero. Leggo richieste di nuovi post. Esprime la mancanza che prova, ma stavolta non sono io l’oggetto dell’oscuro desiderio. Non mi serve uno specchio per sapere che la vena sulla tempia si è gonfiata un po’. Dopo la terza occasione divento impulsivo e l’omino nel cervello diventa Hulk. Un Hulk rosa confetto, ma pur sempre una bestia arrabbiata. E’ che è sempre stato più facile accettarsi che cambiare. L’accavallamento delle biondone mi distrae dal tocco sul tasto Unfollow. Il volo è per Berlino, sembrano tedesche e invece sono di Monopoli.

Nico si domanda se A. sia morto mentre Nube ha già attaccato bottone con le due fintotedesche. A. torna dopo l’ultima richiesta di presentarsi all’imbarco e per aspettarlo perdo di vista l’occasione di almeno leccarla su un aereo. Ha gli occhi gonfi più dei miei e rossi più della mia rabbia. Lascio perdere ed esco dalla tasca i fogli del check-in online e le carte d’identità. L’hostess mi chiede se sia dimagrito. Le sorrido, le chiedo se la ritroverò qui al mio ritorno e penso che certe frasi contengano il sollievo regalato da una sigaretta dopo tanto che ne vorresti una.

Allacciamo le cinture, dormiamo. Slacciamo le cinture, scendiamo. SMS: “Il volo è andato tutto bene, ci vediamo lunedì, ciao.”

Berlino è larga e i posti più belli sono sempre nelle vicinanze di un murales grande quanto il palazzo. Perdersi è facile, ma più difficile è permettersi di continuare ad esserlo. Camminiamo e ci ritroviamo sotto il murales di un tizio in cravatta, con una catena che lega i suoi orologi d’oro, uno per polso. Prima vedi il simbolo, poi vedi le tende che sono o residuati bellici o comprate al Decathlon più vicino. Dopo aver visto loro, vedi i loro smartphone. Intanto che arriva la canna aggiornano il loro stato su Facebook. Mi collego, ma lei non so più cosa stia facendo. Come stalker non valgo nemmeno i soldi della connessione. Una tipa oltre il fuoco sembra abbia appena regalato un flash tits. Spengo il cel e bevo della vodka. Immagino di versarla sulle tette di tutte le ragazze presenti e assenti e poi di berla mentre cola dai capezzoli. E se i capezzoli sono ombelicali allora di usare la lingua per raccoglierla e berla con il resto della bocca. Immagino altre cose, ma lascio stare, stavolta per un buon motivo: la Realtà non sembra tanto male quando sei intorno a un fuoco mentre una tipa che non sembra affatto di Monopoli ti sta ravanando nei jeans. Me lo tiene mentre mi bacia il collo e poi l’orecchio e continua a tenermelo mentre mi porta in una tenda. E’ occupata, si va in un’altra. Si addormenta svenuta poco dopo essere venuta. Con la scusa di dover rullare una sigaretta mi scollo dal suo abbraccio ed esco a fumarmela. A. si è perso già tre volte in mezza giornata. Credo di essere l’unico sveglio e invece vedo qualcuno di fronte all’alba. Ha i rasta, è senza magliettina e il fisico tipico di chi si faceva di meta. Eccolo.
Guardi l’alba o stai ancora pensando a lei? – Adesso tutte e due le cose, grazie… Mortacci tua – Già.
Forse piange o forse sono io. Gli chiedo se ha arrangiato qualcosa anche lui. Mi risponde che ha la batteria del telefono scarica. Aspiro un’altra boccata, poi gli domando “Torniamo?” Per la quarta volta A. si perde, glielo si legge in faccia.

“Eppure lo sai che le parole feriscono più della spada. Ci sono Quelle di Odio Nei Tuoi Confronti, Quelle Pronunciate Alle Tue spalle, Quelle Che Non Ti Hanno Mai Detto e poi le peggiori: Quelle Che Avresti Voluto Fossero Per Te E Invece Saranno Dedicate A Persone Che Lo Meriteranno Molto Meno Di Te” e poi gli fumo addosso perché sono senza fazzoletti.

“Smettila”, gli dico. “Sembri la folle Delirio quando deve cercare di essere ragionevole perché Sogno crolla. Se lei ti ha lasciato allora lasciala anche tu.” Gli rispondo che non la faccio facile, ma accumulare altri rimpianti per aver pensato solo ad uno è da imbecilli. “Torniamo”, mi fa. “Aspe’, prima faccio una foto”



Il caricabatterie è dentro la valigia, sotto i vestiti sporchi. Nascondo anche quello di A. e andiamo a prendere la metro per raggiungere quelle due-tre cose che riusciremo a vedere in un pomeriggio. Torniamo all'aeroporto che di cose ne abbiamo viste una. Torniamo a Bari e A. mi sorride dicendomi “Ora vuoi ridarmi il caricabatteria o devo prenderti a cazzotti in faccia?” Mi dice Grazie ancora prima che iniziassi a pensare di ridarglielo. Ci fumiamo un’altra sigaretta prima di non vederci di nuovo per un bel po’.

Torno a casa, saluto velocemente tutti, vado in camera e leggo il suo defollow.



Sembra uno specchio riflesso. Senza ritorno.

Music on air: Subsonica – Sole silenzioso

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