giovedì 8 settembre 2011

Mi ricordi il mare quando non ci andavo

 

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Mi piace come scrivi, bellezza. Mi ricordi un sacco Efraim Medina Reyes e soprattutto mi ricordi quanto voglio scrivere come lui e come te. Così, senza fermarmi, aprendomi al flusso dei pensieri, come un pianista che suona e insegue la melodia sullo spartito. Come certe note in certi cartoni animati di quand'ero piccolo e c'erano le vhs e queste dopo un po' si rovinavano e lo spartito che faceva da pista d'atletica a quella nota iniziava ad essere affollato di linee. Da allora non ho più memorizzato la definizione di pentagramma, sai? Non ho mai voluto fare il pianista. Credevo fosse un lavoro per vecchi. E invece, adesso che vecchio quasi lo sono, scopro che è un lavoro per giovani che non vogliono suonare la chitarra come gli altri giovani. E ho scoperto che si guadagna pure bene, ma solo se hai passione. E io no, quella passione non ce l'ho. Quella in particolare no. Se ne avessi una per queste cose artistiche me la giocherei tutta sul disegno che un disegno vale più di mille parole e non mi ritroverei ogni volta a scrivere in multipli di mille per spiegarmi, per parlarmi e per farmi sapere.

Sono stato in un museo. In tanti musei, a dir la verità, ma io voglio raccontarti di questo museo dove ho assistito a quelle scene dei film, dei fumetti e delle barzellette. E ho sentito parlare un gran bene di una sedia mezza rotta. Poi ho visto arrivare il tizio della vigilanza che prendeva la sedia e la sostituiva con un capolavoro di levatura artistica minore. Più utile, ma si percepiva meno arte di quella che si sentiva eruttare dalla sedia di prima. Quei due critici mi hanno guardato e hanno proseguito in silenzio. Ogni tanto si voltavano per vedere un ragazzo che ridacchiava fingendo di stare ascoltando qualcosa di divertente dal suo lettore di musicassette. Si voltavano per controllare se li seguissi e se potessero tornare a parlare, a criticare, a discutere. La gente non critica mai se sa che può essere ascoltata da qualcuno. Non mi piace la gente, brutta parola per definire quella cosa bella che è l’umanità.

A me piace parlare in faccia alla gente. Ma questa gente che incontro io la faccia non ce l’ha. Allora io parlo in maschera alla gente. Mi piace il Carnevale perché vedo la gente spendere soldi per maschere che non le rappresentano e io posso finalmente parlare con i personaggi dei cartoni animati di quand’ero piccolo. Finalmente parlare con qualcuno che non pensa ai debiti, al mutuo, alla spesa, a cosa si mangia domani, a chi porterà all'asilo chi un giorno ti porterà all'ospizio e lì ti verrà a trovare all'inizio tutti i giorni e poi una volta alla settimana e poi quando vedi un giorno rosso durante la settimana forse è è arrivato il momento di lavarsi la dentiera che magari arriveranno i bambini. Quelli che all'asilo ci sono andati come me e magari loro la passione per il piano ce l'hanno perché ascoltano gli mp3 e vedono tutto in divx. Le righe ce le aggiungono loro, se vogliono. Ma secondo me non vogliono e al massimo cliccano play. E i colori nell'astuccio diventano tutti grigi e il pallone sulla veranda si sta sgonfiando sotto il sole. Adoro la mia passione per i palloni sgonfi. I Super Santos non bucati, dimenticati sulla veranda, diventati la metà di quello che erano quando il nonno me li comprava durante la passeggiata a Largo Due Giugno durante uno di quei giorni rossi lì. Il nonno profumava di schiuma di barba alla menta e dentifricio rosa. E di vestiti usati poco, forse soltanto quei giorni rossi lì. Anche il Super Santos diventava rosso. Più si sgonfiava e più cambiava colore. Come me e quegli altri che avevano la passione per lo stare sotto il sole dell’estate, le sbucciature delle ginocchia asfaltate e per il gridare ad ogni gol come faceva Tardelli (sai mai quando ti ricapitava di farne uno). Passavano le macchine, ci interrompevano spesso, ma l'importante è ricominciare a giocare. E fare gol e gridare gridare gridare fino a quando qualcuno dal terzo piano usciva, decideva che era ora di finirla di giocare con quel pallone sgonfissimo e ci minacciava di gettarci le sedie di legno appresso. Non so se fanno male le sedie di legno appresso, ma so che l'asfalto non diceva nulla ogni volta. So che un’estate mi sbucciai il ginocchio talmente tante volte che potevo vedermi l'osso. Era bianco nonostante tutto il mercurio cromo messo sopra. Adesso non so di che colore sia il mio ginocchio. Era bianco come i tasti di un pianoforte, come i tasti della tastiera del mio primo computer.

Ed eccomi.

Ripenso al non sogno di fare il pianista e ripenso a quella storia che la vita è come quel tizio del terzo piano perché vuole decidere lei per te. La cosa che non fa ridere è che ci riesce facendoti sentire sgonfio rossissimo, come il pallone più abbandonato sulla veranda a cui abbia mai giocato. E l’alternativa resta sempre quella di cliccare su Play.

Ok, ma su cosa?

 

Music on air: Daniele Silvestri feat Otto Ohm – A me ricordi il mare

7 commenti:

Iris ha detto...

La tua scrittura riesce a disegnare immagini nella mia mente, a farmi sentire gli odori, a farmi piombare su quell'asfalto caldo di agosto dietro ad un Supersantos mezzo sgonfio. Credo sia una delle qualità più belle di chi scrive per raccontare.

@ioeilmiopc ha detto...

vabé, abbiamo bisogno ke ce lo diciamo ankora?
tiléggo. tisénto. tisénto.

Nubetossica ha detto...

@Iris: io credo tu mi abbia fatto il più bel complimento che volessi ricevere

Nubetossica ha detto...

@ioeilmiopc Non è nostra abitudine sottovalutare l'importanza delle cose non dette ;)

Sonia.G ha detto...

Beh, tra giocare a pallone per strada e cliccare play, io quasi quasi tornerei a poter scegliere di giocare per strada. Non so tu...

Anonimo ha detto...

:) (Te l'avevo detto)

Nubetossica ha detto...

:) Tu sai niente del fatto che questo post è stato citato da Mity Vigliero? ;)

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